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Milano Gli articoli della settimana da mercoledì 15 a martedì 21 marzo 2000 L'Inchiesta Vecchio Stile
Mister Irving e Adolf Hitler
Da due mesi, in un'aula dell'Alta Corte di Londra, si dibatte se le camere a gas siano mai esistite e se il Führer sia da considerarsi il responsabile dell'Olocausto. Uno storico inglese contro la Storia. E un giornalista italiano, presente al processo, ha preso appunti
di Carlo Cavicchioli
Qualche volta, anche Esther Brunstein è venuta nell'Aula 73 dell'Alta Corte di Londra, tra il piccolo uditorio di superstiti dell'Olocausto e col cuore un po' più greve degli altri, ad ascoltare dalla bocca tonante dello storico "revisionista" David Irving come ad Auschwitz, campo ch'egli ritiene "di lavoro durissimo, ma non di deliberato annientamento", non esistessero camere a gas; come i treni della deportazione sovrabbondassero di provviste per i viaggiatori, fornite dal governo nazista, e come Hitler, genio benigno ma mal compreso dai suoi stessi intimi, non abbia mai ordinato lo sterminio degli ebrei, anzi abbia provato, per il poco, nulla che ne sapeva, a impedirlo. Esther, nata Zylberberg e oggi vedova di Stanislaw Brunstein, pittore dei villaggi ebrei scomparsi dalla Polonia ma vivi nella sua memoria, arrivò ad Auschwitz nell'agosto del 1944, con la madre. Il loro treno da bestiame fu uno degli ultimi che evacuarono gli occupanti del ghetto di Lodz, famoso, questo, per le infamie che vi si consumarono (come la deportazione, nel settembre 1943, dei bambini al di sotto dei 10 anni in quanto "non produttivi") e per essere durato più a lungo di ogni altro grazie alle industrie che vi erano sorte a beneficio dei nazisti. Al terminal di Auschwitz-Birkenau i vagoni piombati erano già zeppi di morti: per fame, disagi del viaggio, malattie e infezioni prese nel ghetto. Venne la "selezione" sulla banchina; Esther, come le avevano suggerito, mentì sulla propria età, cioè aggiunse due anni ai 16 che aveva, e fu risparmiata; sua madre, invece, a 44 anni, andò con l'altra fila, direttamente nella camera a gas. A quell'epoca, il padre e il fratello maggiore di Esther, che nell'invasione tedesca avevano cercato di salvarsi all'Est, erano già morti anch'essi, fucilati dalle squadre speciali hitleriane, Einsatzgruppen, in un grande massacro sulla piazza del mercato di Luniniec. Ma questo lo si seppe solo molto più tardi. Così stando le cose si può comprendere perché, nell'Alta Corte di Londra, Esther, mai guarita dai traumi di Auschwitz, abbia provato malessere e voglia di gridare. "Ci sento", mi confidava, "una perfidia continua, bizzarra, che la mia mente non riesce ad accomodare...". Gli altri sopravvissuti ne convenivano: c'era lì, dicevano, come un barbaglio lontano delle crudeli assurdità e irrisioni subite nei campi. Per chi sperimentò il nazismo, il neonazismo ha questi echi, queste risonanze premonitrici. Ma il resto del pubblico, la gente più numerosa, non ha l'orecchio così fine, e spesso e facilmente si lascia affascinare da esecutori capaci di esprimersi nella chiave demagogica appropriata, come è il caso di David Irving.
CONFRONTO FRA MENTALITÀ. Per questi risvolti e per altri aspetti che si evidenzieranno nel seguito, il processo londinese di cui andiamo narrando ha assunto dimensioni che trascendono le figure dei protagonisti e sembrano trasformarlo in un confronto forse perfino storico tra due mentalità, o concezioni: da una parte quella che custodisce il retaggio culturale e morale dell'Olocausto, dall'altra quella dei neonazismi e neofascismi risorgenti in varie guise in Europa e altrove, bisognosi, questi, assolutamente, di demolire la verità dell'Olocausto e cancellarne la memoria, perché è il solo modo di far dimenticare il loro proprio passato e ricominciare daccapo. Formalmente, il dibattimento nell'Aula 73 -- durato quasi due mesi e cui ora manca solo la sentenza, prevista per l'inizio d'aprile -- è una semplice causa civile, nella quale David Irving non figura come accusato ma come accusatore. Egli ha infatti querelato, per diffamazione, insieme, la professoressa americana Deborah Lipstadt e la casa editrice Penguin; alla prima imputando d'aver scritto e alla seconda d'aver pubblicato un libro ove lo si definisce "uno dei più pericolosi portavoce della negazione dell'Olocausto" e si precisa, tra l'altro, che come storico non è attendibile: "Familiare con i documenti e le testimonianze della storia, Irving li piega fino a conformarli alle proprie inclinazioni ideologiche e alla propria agenda politica". Queste affermazioni, dice Irving, gli hanno rovinato la carriera e le finanze: e non solo, ma ritiene pure che vi sia in atto contro di lui una "cospirazione delle cerchie ebraiche" per ridurlo al silenzio, ossia per impedirgli di pubblicare libri e tener conferenze internazionali. Il volume della Lipstadt, che s'intitola Denying the Holocaust.The Growing Assault on Truth and Memory, "Negare l'Olocausto, un assalto crescente alla verità e alla memoria", uscì nel 1993 in America (ove l'autrice è docente di Studi Ebraici alla Emory University di Atlanta) e un anno dopo in Gran Bretagna. Ma la causa giunta ora in tribunale, Irving la intentò soltanto nell'autunno del 1996. Qualche mese prima l'editrice americana Saint Martin Press aveva annullato in extremis la pubblicazione della sua biografia di Goebbels, criticata dal New York Times come opera d'un apologeta di Hitler. Irving ci aveva lavorato, assicura, otto anni; e il rigetto gli sembrò una conseguenza della guerra che la Lipstadt gli aveva mosso. Una delle peculiarità della procedura inglese è che le parti, molto prima di cominciare la causa in pubblico, debbono scambiarsi tutte le informazioni di cui dispongono e di cui vengono in possesso via via; e che l'una non può negare all'altra, sub poena, qualsiasi documento privato, lettera o annotazione considerati da quest'ultima rilevanti. Idem per le relazioni dei rispettivi esperti, chiamati poi a testimoniare e a subire le cross-examinations, gli interrogatori in contraddittorio. La fase preparatoria (durata nella fattispecie due anni) è quindi la più importante e anche quella in cui più sovente una delle parti, constatando che l'arsenale d'argomentazioni dell'altra è soverchiante, le si arrende. Quando i dati e i dossier da vagliare sono molto complessi e richiedono particolare competenza e notevole cultura, i litiganti concordano generalmente di affidarsi a un singolo giudice anziché a una giuria popolare. Così si è fatto in questo caso, e il giudice designato è Lord Charles Gray. Come loro difensore, la Penguin Books e la professoressa Lipstadt, sostenute anche da organizzazioni ebraiche, hanno ingaggiato uno dei più fini principi del foro londinese, Richard Rampton, Q.C. (Queen's Counsel), cioè Patrocinante per la Corona, titolo onorifico concesso a pochi avvocati. Irving, invece, ha scelto di rappresentarsi da solo, come consentito dalla legge. Dunque si è prodigato, spesso nella stessa udienza, nei ruoli di querelante, avvocato, testimone; in tutti riuscendo bene, perché è un formidabile istrione. Come si può arguire, del resto, dalla sua biografia.
ULTIMO DI QUATTRO FIGLI. David John Cawdell Irving, ultimo di quattro figli, è nato a Londra il 24 marzo 1938, insieme a un gemello che oggi, funzionario statale e contento di non somigliargli molto né nel carattere né nell'aspetto, ha comunque mutato cognome, con atto notarile, a scongiurare qualunque possibilità di confusione. Il padre, ufficiale di marina, allo scoppio della guerra mondiale serviva sull'incrociatore Edinburgh. Nel 1942 la nave fu affondata da un sommergibile tedesco. Il tenente Irving scampò al naufragio, ma non tornò più in famiglia, né allora né dopo la fine del conflitto. Così i ragazzi crebbero in ristrettezze, alla periferia della capitale, con una madre che aveva aspirazioni borghesi e reddito proletario. David frequentò vari college, ma senza arrivare al diploma, provò invano ad arruolarsi nella Raf e infine andò a lavorare in Germania, come operaio, alle acciaierie Thyssen. Là imparò bene la lingua e in certo modo trovò una patria spirituale, nel Terzo Reich anziché nella Germania democratica di Adenauer. Le testimonianze degli scampati al tremendo raid aereo alleato su Dresda negli ultimi mesi di guerra gli ispirarono il suo primo libro, The destruction of Dresden, uscito nel 1963 e immediatamente un best seller. Le sue tesi erano controverse, ma vi dispiegava un eccezionale talento per la ricerca storica, e la critica non lesinò elogi a un autore di 25 anni che sapeva scrivere in modo avvincente. Più ancora il libro piacque ai tedeschi "nostalgici" e su quest'onda di mutua simpatia i contatti di Irving in Germania crebbero e fruttificarono. Conobbe un veterano delle SS, Otto Guensche, che era stato aiutante personale di Hitler e ne aveva bruciato il cadavere. Guensche gli presentò altri nazisti eminenti e Irving poté mettere in cantiere l'opera che più gli stava a cuore: una biografia del Führer. Dopo vari lavori di minor conto, questa apparve nel 1977 con il titolo di Hitler's war, "La guerra di Hitler", e fu un altro bestseller. I veri esperti di storia, però, ci trovavano parecchio da ridire. Irving aveva esonerato il Führer da ogni responsabilità nel genocidio degli ebrei. Il libro lo presentava come una sorta di boss d'azienda, "troppo indaffarato", osservava il settimanale Time, "per sapere cosa succedesse nelle succursali periferiche di Auschwitz e Treblinka". La scrittrice Gitta Sereny, anche lei studiosa del Terzo Reich, scoprì che il suo collega aveva omessa o diluito testimonianze ch'egli stesso aveva raccolto, ma che non suffragavano la sua tesi. Negli anni seguenti i penchant politici di Irving si fecero più manifesti. Divenne un oratore quasi abituale alle adunate di gruppi neonazisti e razzisti in Europa e in America, ove estese la sua amicizia a David Duke, noto esponente del Ku Klux Klan in Louisiana.
AUSCHWITZ COME DRESDA? Irving smentisce di essere un negatore dell'Olocausto, ma da anni la sua ambizione, neppur nascosta, è di "ridimensionarlo" negandone gli aspetti più feroci: le deportazioni in massa, gli eccidi sistematici, le camere a gas. E questo verosimilmente allo scopo di poter equiparare Auschwitz ad altre grandi tragedie contemporanee di specie diversa, come il bombardamento di Dresda o quello di Amburgo, e in qualche modo riabilitare il Terzo Reich e i suoi uomini in un "Così fan tutti". In uno dei suoi discorsi infuocati in Canada, Irving ha detto questa frase, riletta in udienza dall'avvocato Rampton: "Morirono più persone a Chappaquiddick, sul sedile posteriore dell'auto di Edward Kennedy, che non in una qualche camera a gas di Auschwitz!". È sulla scorta di uscite del genere che Irving non è più ammesso in Germania, Oanda, Italia, Canada, Australia. Afferma di non essere razzista, ma il legale della difesa gli ha trovato nel diario requisito sulla sua scrivania, questa poesiola autografa, da recitare alla figlioletta Jessica quando, a passeggio nei parchi, capiti d'incrociare bambini di colore:
In italiano, volendo conservare la rima, la si può rendere così: "Sono ariana, non ebrea / e non ho nessuna idea / di sposare pari pari / scimmioni o Rastafari". Tra il pubblico dell'aula, alla lettura dei versi, ci sono alcuni che ridacchiano, e sono, penso, i sostenitori ariani di David Irving; parecchi altri, invece, tacciono pensosi, e sono dei signori con la kippa sulla nuca, attempati, che vengono da odissee lontane. Io non avrei seguito questo processo, e mi sarei persa una notevole lezione morale, se non mi ci avesse indotto e accompagnato un mio vicino di casa, Michael Lee, che aveva le sue ragioni per presenziare. Sessantun anni fa Michael si chiamava Mieczeslaw Lewkowsky, era un adolescente della classe 1924 e abitava a Lodz, col padre Zisman, la madre Deborah e un fratello ancora bambino, Jozef. Cinque anni e mezzo dopo non restava che lui. Fino all'estate del 1944 avevano penato nel ghetto, poi era venuta la deportazione. Ad Auschwitz, Deborah e Jozef erano stati soppressi subito, nella camera a gas che secondo Irving non è mai esistita. Michael, che nel ghetto aveva appreso il mestiere di saldatore, era stato destinato al campo sussidiario di Gleiwitz, dove i prigionieri-schiavi lavoravano alla riparazione dei treni. Sapeva che suo padre aveva passato la prima "selezione", ma non lo ritrovò mai. Nel 1946 Michael riuscì a raggiungere Londra e vi si stabilì, assumendo un nome inglese. L'unica prova che la sua famiglia è esistita, l'ha scoperta recentemente al Yad Vashem, il museo-archivio israeliano dell'Olocausto. Lì ci sono i nomi e un vecchio indirizzo polacco. Ha pianto un poco, cosa che non gli succedeva da tempo. Più o meno è l'esperienza di Esther. L'Olocausto, dice Irving, "è noioso". Per molti anni, Michael, come tanti altri sopravvissuti, s'è semplicemente sforzato di dimenticare la propria storia, visto che non sembrava interessare a nessuno. Al massimo, d'estate, qualcuno vedeva il numero tatuato sull'avambraccio (B 8405) e ne chiedeva conto. Ma poi il clima è cambiato, si è percepito che le testimonianze possono servire magari anche solo a fare un po' d'argine al "revisionismo". Ciascuno porta il suo fardello, e la barriera cresce. Le immagini della prigionia ricorrenti nella memoria, Michael ha cominciato a dipingerle, che è anche un modo di esorcizzarle. Scene del ghetto, visioni di Gleiwitz e delle "marce della morte" in cui sfociò l'evacuazione dei campi. "Traversavamo una cittadina sotto la neve. Faceva chiaro da poco, tra le due file di case una sola finestra era accesa. Vede il lungo corteo degli straccioni, ch'eravamo noi. Dall'alto qualcuno ci buttò del pane e subito le guardie di scorta gridarono: non date niente, sono dei criminali!".
CARISMATICO. Wlodka Blit, un'altra figura tra il pubblico della Corte. Viene da un'odissea diversa. Non conobbe l'orrore dei campi, scappò dal ghetto di Varsavia con la sua gemella Nelly, tre settimane prima dell'insurrezione. Avevano undici anni, scavalcarono il muro con una scala, poi furono aiutate a raggiungere la campagna, ove alcune famiglie polacche le ospitarono a turno. La madre era riuscita a corrompere le sentinelle di quella notte. Ma non le era possibile seguire le bambine, troppo rischio per loro. Finita la guerra Wlodka e Nelly ritrovarono il padre, Lucian Blit, giornalista politico assai noto, che le portò con sé a Londra, dove il Guardian gli aveva offerto impiego. Solo dopo la sua morte seppero, da uno scritto trovato tra le sue carte, che la madre era stata uccisa nel campo di Majdanek. A Wlodka, David Irving fa paura. Perché sa parlare molto bene e in un tono autorevole e suadente. "Uno dei miei figli", sospira Wlodka, "m'ha già detto che in questi discorsi ci deve pur essere qualcosa di vero. Allora vedi...". Certamente Irving è, diciamo a modo suo, un personaggio carismatico, dotato pure di un intelletto di prima classe. Il sentirsi al centro dell'attenzione pubblica, il far scalpore a qualunque costo, lo galvanizza, dev'essere il massimo dei suoi piaceri. Lo si direbbe un attore professionista, uno che se toccasse a me assegnargli un ruolo in palcoscenico gli darei quello di Fiodor Karamazov. Per un momento, nel corso d'un interrogatorio, Richard Rampton gli ha fatto la predica come un igumeno: "Lei ha prostituito il suo rimarchevole talento al servizio della causa neonazista". Quanto all'altra causa, quella intentata alla Lipstadt e al di lei editore, è quasi impensabile che riesca a vincerla, appunto perché il dibattito si è ampliato, abbracciando molto di più che il mero oggetto del contendere. Richard Rampton ha portato sul banco dei testimoni a difesa una formidabile rosa di luminari della storia, dell'analisi storiografica, della sociologia e delle scienze politiche. Sull'epopea del Terzo Reich, la leadership di Hitler e i ruoli dei vari gerarchi e dello stesso Führer nella "soluzione finale", abbiamo avuto un vero e proprio corso universitario a cura dei professori C. Browing e John Van Pelt. Più due saggi di P. Longerich, 180 pagine complessive, sulle responsabilità personali di Hitler nel genocidio e sul modo sistematico in cui fu programmato. Hajo Funke (Libera Università di Berlino) e Roger Eatwell (Università di Bath) hanno analizzato i movimenti neonazisti tedeschi, le figure dei maggiori "negazionisti" e i rapporti intrattenuti da Irving con gli uni e gli altri. L'intera opera del querelante, infine, è stata esaminata per così dire al microscopio, cioè parola per parola, da Richard Evans, docente di Storia moderna a Cambridge, oltre che fellow della British Academy. La diagnosi, esposta in un trattato di 726 pagine, non è benigna. Irving sembra soffrire in particolare di una tendenza cronica a scusare Hitler e sforzarsi di riabilitarlo. (Una mia illazione, assolutamente gratuita, è che cerchi in lui, tale Amleto sui bastioni di Elsinore, un fantasma paterno, sostitutivo dell'ufficiale di marina che abbandonò moglie e figli 58 anni fa, in piena guerra antihitleriana). Comunque, quale che sia la sentenza del giudice Charles Gray, bisogna riconoscere che con questa querela, forse più che con tutti i suoi volumi, David Irving ha contribuito, sia pure in modo preterintenzionale, al progresso dell'indagine storica seria sul Terzo Reich, sul suo fondatore, sui neonazisti e sulla verità dell'Olocausto.
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March 15, 2000 |